La Strada

Cover of "The Road"

Cover of The Road

La Strada

(The Road, Cormac McCarthy, 2006 Usa)

Ha un senso sperare? Per cosa stiamo sopravvivendo?
Due delle domande che l’uomo si pone quando il futuro scompare di colpo. Potrebbero essere le domande di un condannato a morte, oppure di un uomo che tenta di garantire a suo figlio la sopravvivenza. L’uomo spinge con ostinazione il carrello che contiene le uniche cose rimaste ai due.
Niente colori, solo il grigio che è quello della strada e del cielo:
“Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato.”

Lo stile di McCarthy è semplice, diretto, privo di qualsiasi fronzolo, eppure si adatta perfettamente alla storia.
Dialoghi privi di punteggiatura, quasi lo scrittore volesse alludere alla realtà che essi sono chiamati a descrivere, quella in cui ogni limite posto dalla civiltà all’orrore della sopraffazione reciproca dell’uomo sull’uomo è abolito:
“Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
L’uomo sputò un grumo di catarro e sangue sulla strada. Alzarmi stamattina, disse. ”

“Sei un medico?
Non sono un bel niente.”

C’è solo la strada polverosa, che porta l’uomo e il bambino verso sud, la speranza o forse solo l’illusione.

L’uomo reso merce, oggetto, reso carne da macello. Gruppi di cannibali incatenano altri uomini in cantine-prigione. Li allevano come bestiame per mangiarne la carne, pezzo per pezzo.
La madre del bambino cede prima che la narrazione del romanzo cominci, è presente sono nella memoria del padre. Senza nome e senza storia. La storia non è importante, l’importante è la visione, dare conto del presente. Raccontare l’olocausto senza causa, e rimanere senza risposta.

Ogni giorno è una lotta contro il nulla che sembra volere inghiottire il mondo.
Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo.
Ma il finale si apre alla speranza, seppur vaga. Fino a quando ci sarà un uomo pronto ad interessarsi ad un altro uomo, il mondo non scomparirà.

Al di là del mondo

Al di là del mondo

Al di là del mondo è un romanzo post-apocalittico. Il suo personaggio principale, David, vaga per una terra desolata, i cui frammenti di storia gli si presentano come grumi di cenere del mondo che è stato. Incerti tra follia e saggezza, i pochi sopravvissuti al disastro trascinano la propria vita di testimoni di una civiltà di cui sembra essere rimasta solo la grigia nebbia di orrore, che tutto appesta, e l’incommensurabile forza creatrice della poesia, unica luce seppur incerta.

Ma è solo ora che il mondo è finito che le forze ataviche vengono liberate ed è possibile una nuova creazione.

Qui le quattro parti iniziali:

Al di là del mondo (Parte 1)

Al di là del mondo (Parte 2)

Al di là del mondo (Parte 3)

Al di là del mondo (Parte 4)

La generazione XD

La generazione XD

di Ezio

In che modo l’avvento di nuovi sistemi di comunicazione influisce sul linguaggio e sulle modalità di relazione e comunicazione, in particolare fra le nuove generazioni (principali utilizzatrici dei supporti digitali)?

E’ possibile, a mio avviso, esaminare il fenomeno da due punti di vista: quello della forma e quello della funzione.
Le principali innovazioni formali portate dai sistemi di messaggistica istantanea (telefonica o informatica) sono due: l’uso sempre più diffuso di abbreviazioni ( come “xkè?” o “4ever”), e le cosiddette emoticons, combinazioni alfanumeriche volte a rappresentare determinate mimiche facciali.
L’utilizzo di abbreviazioni è, a mio avviso, molto meno significativo che quello di emoticons. L’abbreviazione è frequentemente basata su acronimi (lol = laughing out loud, sbellicarsi dal ridere) o sulle omofonie (uguaglianza di suoni) fra simboli diversi: ad esempio, sfruttando la somiglianza, fra la pronuncia in lingua inglese di 4 (“four”) e di “for”, di “you” e della lettera “u”, di “are” e della lettera “r”, della pronuncia di “the” e “da” e del suono “xt” con “est”, è possibile scrivere “you are the best forever”, 20 caratteri, come “ur da bxt 4ever”, 12 caratteri.
Questo tipo di abbreviazione è semplicemente giustificata dal bisogno di scrivere velocemente e, possibilmente, di impiegare pochi caratteri, per risparmiare tempo e qualche centesimo mantenendo inalterato il contenuto del messaggio. Essa non comporta mutamenti sostanziali nella struttura della frase, se non un certo impoverimento del linguaggio, dovuto, in verità, più alla necessità di stringare al massimo le frasi che alle abbreviazioni in sé.
E’ tuttavia un dato di fatto che il linguaggio abbreviato degli sms abbia lentamente cominciato a fuoriuscire dal suo ambito di provenienza; i giovani di oggi, più avvezzi alla tastiera che alla penna, sempre più di frequente utilizzano le suddette forme anche nella scrittura quotidiana. In questo non c’è nessun male, purché si riesca a mantenere chiaro un discrimine fra quando si prende un veloce appunto e quando si cerca di scrivere qualcosa in un italiano corretto; Non è raro, infatti, imbattersi, nei compiti in classe, in forme più da Doretta (il programma auto-rispondente di msn) che da Accademia della crusca!
L’emoticon, invece, è qualcosa di relativamente rivoluzionario.
Essa è l’evoluzione dell’onomatopea.
Questa si prefigge di rendere la suggestione fonetica di un concetto, in modo esplicito, utilizzando una parola coniata “ad hoc” (“clof”, “clop”, “cloch” ecc.) e priva di altro significato, o in modo implicito, tramite un termine il cui suono evochi per assonanza il suo significato (“rombo”, “bisbiglio”, “sussurro”).
La prima, invece, non mira più a riprodurre un linguaggio verbale o sonoro, ma quello immediato dei gesti e degli sguardi: è la rappresentazione stilizzata di un’espressione del volto tramite l’utilizzo di lettere o segni d’interpunzione.
Esempi classici sono il sorriso : ) ,  o la faccia triste : ( , o stupita 😐 , o l’occhiolino ; ) , o il proverbiale XD.
XD rappresenta un volto contratto in un ghigno divertito, una risata a denti stretti che ricorda tanto lo stile dei fumetti giapponesi.
E in effetti, questa espressione facciale, così diffusa nel linguaggio informatico, non fa certo parte del comune repertorio che utilizziamo nel nostro relazionarci quotidiano; è piuttosto anomala, e, forse, un po’ ipocrita: cosa penseremmo, infatti, se a un nostro motto di spirito si rispondesse strizzando gli occhi e digrignando i denti?
Ed è proprio partendo da questa considerazione che è possibile cogliere la peculiarità del linguaggio delle emoticon: il consentire di indossare e togliere, a comando, delle maschere perfette ed impermeabili.
La possibilità di fingere, nelle relazioni umane, non è certamente qualcosa di nuovo; ma si può notare come, con l’evolversi delle forme di comunicazione, fingere sia diventato sempre più facile.
Si comincia dal linguaggio diretto, verbale, fatto di parole, ma anche di sguardi, toni di voce.
Un individuo intenzionato a fingere nella comunicazione diretta deve sforzarsi a modulare i suoni, a non tradirsi con le espressioni del viso. Non è affatto facile fingere di divertirsi davanti a qualcosa di banale o di cattivo gusto, non è affatto facile fingersi calmi quando dentro di sé si agitano delle passioni verso la persona che si ha di fronte.
Con l’avvento del linguaggio mediato tramite la scrittura, fingere è diventato molto più agevole. Chiunque può scrivere qualcosa che non pensa, senza rischiare di essere tradito da uno sguardo o da una vibrazione nella voce.
Tuttavia, il carattere mediato del linguaggio scritto agevola tanto la mistificazione quanto la demistificazione: non c’è nulla di più facile che sospettare della falsità di qualcosa di scritto.
Ed è qui che l’emoticon compie il passo ulteriore.
L’utilizzo di “faccine” rende la finzione ben più verosimile.
E’ infatti noto che dei meccanismi interni al nostro cervello, di cui sono responsabili i neuroni specchio, rendono automatico un processo empatico nei confronti dell’espressione della persona che ci si trova di fronte, provocando una parziale “sospensione dell’incredulità”, come quando ci si commuove vedendo qualcuno piangere, o si sorride di fronte a qualcuno che ride, anche ignorando le cause dell’uno o dell’altro comportamento.
Non è difficile, infatti, osservare come sia più credibile ed efficace, per suggerire l’idea del divertimento, una faccina che si sbellica dal ridere rispetto all’equivalente fredda scritta “ahahah”.
Cosa comporta tutto questo?
La conseguenza è che, come accennavo, le emoticons, affermatesi nel linguaggio prima dei cellulari e poi dei social network come mezzi per stemperare la freddezza e l’impersonalità delle parole scritte nei caratteri codificati di un computer, non hanno fatto che rendere ancora più superficiale e fasullo il linguaggio medesimo.
Si può fingere di sbellicarsi dal ridere con l’apposita faccina, ben meglio di come si potrebbe fare con le semplici parole, fingere di essere cortesi inserendo un sorriso nelle frasi, fingersi dispiaciuti digitando l’emoticon corrispondente all’omino con le lacrimucce: ma la persona che sta dall’altra parte dello schermo risulta ancora più inconoscibile.
L’emoticon, dunque, non è necessariamente sintomo di ipocrisia, ma, volendo, mette nelle condizioni di potere indossare a piacimento delle maschere, di giocare con l’empatia rendendo ancora più difficile capire quando il proprio interlocutore è sincero e quando non lo è.

Oltre alle innovazioni formali, costituite dalle abbreviazioni e dalle emoticons, va considerato anche un mutamento funzionale.
La lettera non era pensata per sostituire il linguaggio orale, ma per essere un prolungamento di esso. Si ricorreva alla scrittura quando era impossibile comunicare di persona, quando l’altra persona era fuori dalla portata del “faccia a faccia”.
Oggi, invece, la messaggistica istantanea (msn, facebook… ) attinge direttamente al tempo che le generazioni precedenti avrebbero dedicato alla frequentazione diretta.
Essi assumono il ruolo di una “piazza virtuale”, di accesso comodo ed istantaneo ed illimitata estensione, provvista di cinema, musica e quant’altro si possa desiderare, dove trascorrere i tempi morti; raramente sono utilizzati perché necessari: molto più spesso, come un passatempo, un intrattenimento fine a sé stesso.
E’ però un fatto che in questa piazza, pur nell’affollamento, ciascuno si ritrovi, in fondo, da solo.
In mezzo al frenetico “condividere”, quello che manca è proprio la condivisione; quella diretta, fatta anche di sguardi, di vicinanza materiale, di contatti, di risate, di lacrime.
L’esperienza del contatto personale, reale, rimane dunque indispensabile ed irrinunciabile: un rapporto che non si alimenti alla fonte del tempo speso insieme e della frequentazione diretta è quasi inevitabilmente destinato ad avvizzire e morire.
Come riporta Bauman nel suo Paura liquida, quando il vicino diventa immediatamente raggiungibile con un clic, egli in realtà sprofonda in una distanza incolmabile.
Possiamo quindi parlare di una nuova “solitudine da social network”, fatta di “condivisioni” pubbliche ed “amicizie” virtuali, che risultano, da sole, profondamente insignificanti.
Non è difficile cogliere un nesso fra questo contesto e quei tragici suicidi, prevalentemente giovanili, compiuti improvvisamente, inaspettatamente, da individui descritti da tutti i conoscenti come “tranquilli e normali”, magari apparentemente integrati e circondati da amicizie virtuali, ma in realtà profondamente soli e bisognosi di vero calore umano, ascolto, comprensione.

Quali potranno essere le conseguenze sociali a lungo termine di rapporti umani resi sempre più epidermici dai mutamenti del linguaggio e da frequentazioni virtuali, è qualcosa che solo il tempo potrà mostrare; non è, tuttavia, difficile intuire che porteranno ad una società, paradossalmente, più individualista e più socializzata al tempo stesso, fatta di vite pubbliche e persone che sanno tutto di tutti, ma in realtà non conoscono né chi le circonda né sé stesse, e si trovano, per questo, fondamentalmente da sole.

Sembra divertente XD!

Perché il ritorno allo Stato-nazione (parte1)

La crisi, la nazione, l’intolleranza.

Il post seguente, data la vastità dell’argomento, è diviso in più parti di cui pubblico subito la prima.

Che cos’è una nazione?

Me lo sono sempre chiesto, senza mai arrivare ad una definizione convincente che non sia quella contenuta in un dizionario, e anche quella, a ben guardare, risulta assolutamente insoddisfacente.
Potrebbe sembrare una domanda di scarsa rilevanza, come la questione se sia nato prima l’uovo o la gallina, ma dalla propria appartenenza nazionale deriva molto più della vittoria in un mondiale di calcio. Perché qualcuno dovrebbe dirsi nazionalista, e prima ancora perché, dopo il nome ed il cognome, la nazionalità sembra essere il connotato più importante per l’ identificazione di un individuo?
Se c’è una costante nella storia dell’uomo è la socialità: da sempre gli uomini si riuniscono in gruppi al solo scopo di contrastare altri uomini.
Ebbene uno dei tanti meriti della globalizzazione è avere segnato  una controtendenza nel riconoscimento in una nazione. In fondo è solo un sistema come un altro di costruire alterità fittizie, basandosi su stereotipi e differenze apparenti che vengono cancellate se solo si sa riconoscere negli altri la nostra stessa essenza. Il nazionalismo è stato storicamente inventato dalla borghesia che si è impadronita dello stato a scapito dell’aristocrazia e ha costretto le masse ad un dominio basato sull’ideologia dominante, come la religione, il genere sessuale e, appunto, la Nazione. Continua a leggere

Alcune idee su stupidità e pubblicità

Alcune idee su stupidità e pubblicità

Non è raro, se si dà un’occhiata alla televisione, imbattersi in una frase, un gesto, un comportamento che colpisce l’attenzione, inaspettato e diretto, lasciandoci perplessi, a volte divertiti, ma di frequente anche irritati.
Mi riferisco a quelle frasi, quei gesti e quei comportamenti che comunemente si definiscono come più o meno “stupidi”.cane pazzo che ascolta la musica
Viene da chiedersi, dunque, quali siano le peculiarità che rendono qualcosa “stupido”; cosa sia, insomma, che ce lo rende così poco digesto, e che può provocare in noi sorpresa, ma anche reazioni contrastanti quali l’ilarità o l’ira. Continua a leggere

La disintegrazione della verità

di Ezio

La disintegrazione della verità

Quando, durante Tangentopoli, emerse il substrato di corruzione e clientelismo che avvelenava la Prima Repubblica, la reazione degli Italiani fu esemplare: si pensi solo alle famose monetine lanciate a Craxi, eretto a simbolo del degrado di un’intera classe politica.
Quasi vent’anni dopo, il susseguirsi di un’indecorosa trafila di scandali (corruzione, sfruttamento della prostituzione, “bavagli” e quant’altro), non è stato seguito da nulla di minimamente paragonabile.
Il dissenso non si è spinto oltre il vuoto verbalismo di una minoranza sempre più tale, e l’auspicabile, e più che legittima, ondata di biasimo che avrebbe dovuto travolgere i diretti interessati si è sgonfiata prima di assumere una qualsivoglia rilevanza.
Quando si pensa alla politica italiana, oggi, si viene colti da una sensazione di fastidio ed impotenza; la prevedibile conseguenza è il disinteresse verso la vita pubblica, che accomuna una parte sempre maggiore degli Italiani.
Cosa è cambiato, in questi vent’anni, per sfibrare a tal punto un’intera nazione? Che tipo di mutamenti culturali sono alla base di questa supina rassegnazione, di questo scorato abbandono ad una condizione percepita come una cappa plumbea ed immodificabile?
Una prima spiegazione appare evidente; la disillusione e la delusione seguite a Tangentopoli hanno sicuramente avuto un ruolo decisivo nell’atterrire lo spirito combattivo, peraltro mai troppo vigoroso, degli Italiani.
Ma questa prima causa, sebbene concorra in modo significativo a spiegare il fenomeno, non risulta da sola sufficiente.
Il profondo, viscerale fastidio ed il desiderio di raddrizzare il torto che chiunque sente di fronte all’ingiustizia ed alla prevaricazione (specie se nei propri confronti) si sarebbero infatti, prima o poi, incanalati verso ulteriori forme di protesta e contestazione; difficilmente il crollo inglorioso della Prima Repubblica, vent’anni dopo, avrebbe potuto, da solo, avere un tale effetto paralizzante sulle coscienze di un popolo.
Il fenomeno che, a mio avviso, costituisce la radice profonda di questa inedia collettiva, è un altro.
Nell’ultimo ventennio, è possibile constatare come sia stato progressivamente disintegrato l’essenziale presupposto, fondamento di qualsiasi azione e della stessa riflessione umana, che esista un’unica, statica, solida verità.
La distinzione, di origine addirittura presocratica, fra Verità ed Opinione, è venuta a mancare del tutto; come sottolinea De Monticelli, la frequente ripetizione di frasi come “la mia/tua/sua verità” testimonia la crescente uniformità di significato che questi due termini vengono ad assumere.
Quello che, infatti, avviene nel quotidiano è che la verità è continuamente frammentata, contraddetta, violentata e ridotta ad un flusso continuo di frasi, smentite, notizie contrastanti, omesse, edulcorate, esacerbate, a seconda della necessità di chi, di questo flusso, tiene le redini.
Chi non ha solide fondamenta su cui poggiare i piedi finisce per affondare: in questo fluire ininterrotto e sempre più frenetico di input contraddittori, il cittadino, ormai stabilmente relegato al rango di telespettatore ed all’esercizio passivo di una democrazia da divano, si trova inondato, sommerso ed, in definitiva, immobilizzato.
Come costruirsi un’opinione, se tutte le informazioni che si ricevono al mattino rischiano di essere (e spesso sono) smentite la sera stessa, o se è abolito ogni ordine gerarchico fra ciò che davvero vale la pena di considerare e l’enorme mole di spazzatura insignificante che ci viene propinata? Come si può indignarsi per qualcosa che è subito dopo descritto in modo completamente diverso, rigirato, rivoltato ed infine dichiarato falso o frainteso?
In questo vero e proprio mosaico, anche i più basilari principi del pensiero logico sono distrutti dal coesistere di “verità” discordanti, e la conseguenza è lo spaesamento, la paralisi, mentre il caleidoscopio di notizie ed informazioni che vorticano intorno all’inerme cittadino medio si appiattiscono in un opaco, denso alone grigiastro, fatto di tanta confusione, rassegnazione ed un profondo senso di impotenza, ed espresso dal caratteristico motto: “tanto, sono tutti ladri.”.
Questo “tanto”, tanto rassegnato quanto sintomatico di un certo menefreghismo furbetto radicato profondamente nella cultura del Paese, quel menefreghismo di chi “ha capito il gioco” e dunque se ne tira fuori, pensando piuttosto al suo orticello, denota la percezione diffusa della politica come un universo estraneo, intangibile, per cambiare il quale non è possibile fare niente, e distaccarsi dal quale (se non contrapporvisi apertamente) risulta un’inevitabile misura di autotutela.
La parola “tutti”, invece, esprime il sentore, da parte del cittadino, di una diffusa, indistinta e inarrestabile decadenza collettiva, invincibile e minacciosa, poiché il torrenziale fluire di un’informazione proteiforme rende impossibile mettere a fuoco i singoli soggetti, che siano eventi, personaggi o schieramenti politici.
In questo contesto, non esiste, dunque, nessuna verità, se non quella dello slogan più incisivo e ripetuto con più insistenza; la politica è così diventata un mestiere da piazzisti, da urlatori da stadio, e non più l’attività che Platone esaltava come seconda solo alla filosofia.
Ma la verità esiste. Al di là dei resoconti ritoccati, dei detti e dei contraddetti esiste la realtà, con i suoi dati, univoci e certi; ad esempio, se ciascuno, premesso cosa si intenda per “disoccupato”,  o lo è o non lo è, necessariamente esiste un reale tasso di disoccupazione; se qualcuno ha pronunciato una frase, nel momento in cui questa ha finito di varcare la soglia delle sue labbra diventa storia, diventa dato di fatto.
Non dobbiamo dimenticare questo assunto apparentemente ovvio, ma di fatto eroso da un costante lavorio ai fianchi: dietro le notizie, dietro gli slogan e la propaganda, ci sono i fatti, incontrovertibili perché reali, e su questi si può e si deve fondare la riflessione politica e sociale.
Come fare, dunque, a squarciare il muro di fumo e ad attingere ai fatti stessi?
Sicuramente, leggere e confrontare diversi quotidiani può essere un primo passo.
Un’ ulteriore strategia è quella di ricorrere alle testimonianze dirette: quale miglior modo per informarsi e formarsi un’opinione fondata, ad esempio, sulla situazione a L’Aquila, se non entrare in contatto con chi è direttamente coinvolto?
Nel fare ciò, un ruolo decisivo può essere giocato da Internet, mezzo ideale per un’informazione “diretta” e di prima mano.
Al tempo stesso, è necessario mantenere una memoria storica, anche tangibile: conservare articoli ritenuti significativi, prendere nota degli eventi principali, sforzarsi di ricordare fatti, nomi, date, al fine di sottrarsi all’orwelliana riscrittura della verità di bocca in bocca e di telegiornale in telegiornale, ed, ancora di più, per mettere al riparo alcuni punti certi dagli abissi senza ritorno del dimenticatoio, in cui sarebbero presto sospinti da nuove ondate di notizie, sempre frammentarie o superflue fino al grottesco (si pensi ai vari servizi sulle meraviglie del tartufo, sulla tenera storia d’amore fra un pastore maremmano ed un macaco e sul siliconato davanzale della valletta di turno che ci sono quotidianamente propinati).
Formarsi delle idee fondate, e potere, di conseguenza, tutelarsi, è dunque ancora possibile, ma richiede impegno e perseveranza; la pena per chi si lascia andare alla troppo facile pigrizia ed all’indolenza è l’effettiva defraudazione del proprio diritto a governarsi, camuffato da sorridente e paterna pacca sulla spalla.