La disintegrazione della verità

di Ezio

La disintegrazione della verità

Quando, durante Tangentopoli, emerse il substrato di corruzione e clientelismo che avvelenava la Prima Repubblica, la reazione degli Italiani fu esemplare: si pensi solo alle famose monetine lanciate a Craxi, eretto a simbolo del degrado di un’intera classe politica.
Quasi vent’anni dopo, il susseguirsi di un’indecorosa trafila di scandali (corruzione, sfruttamento della prostituzione, “bavagli” e quant’altro), non è stato seguito da nulla di minimamente paragonabile.
Il dissenso non si è spinto oltre il vuoto verbalismo di una minoranza sempre più tale, e l’auspicabile, e più che legittima, ondata di biasimo che avrebbe dovuto travolgere i diretti interessati si è sgonfiata prima di assumere una qualsivoglia rilevanza.
Quando si pensa alla politica italiana, oggi, si viene colti da una sensazione di fastidio ed impotenza; la prevedibile conseguenza è il disinteresse verso la vita pubblica, che accomuna una parte sempre maggiore degli Italiani.
Cosa è cambiato, in questi vent’anni, per sfibrare a tal punto un’intera nazione? Che tipo di mutamenti culturali sono alla base di questa supina rassegnazione, di questo scorato abbandono ad una condizione percepita come una cappa plumbea ed immodificabile?
Una prima spiegazione appare evidente; la disillusione e la delusione seguite a Tangentopoli hanno sicuramente avuto un ruolo decisivo nell’atterrire lo spirito combattivo, peraltro mai troppo vigoroso, degli Italiani.
Ma questa prima causa, sebbene concorra in modo significativo a spiegare il fenomeno, non risulta da sola sufficiente.
Il profondo, viscerale fastidio ed il desiderio di raddrizzare il torto che chiunque sente di fronte all’ingiustizia ed alla prevaricazione (specie se nei propri confronti) si sarebbero infatti, prima o poi, incanalati verso ulteriori forme di protesta e contestazione; difficilmente il crollo inglorioso della Prima Repubblica, vent’anni dopo, avrebbe potuto, da solo, avere un tale effetto paralizzante sulle coscienze di un popolo.
Il fenomeno che, a mio avviso, costituisce la radice profonda di questa inedia collettiva, è un altro.
Nell’ultimo ventennio, è possibile constatare come sia stato progressivamente disintegrato l’essenziale presupposto, fondamento di qualsiasi azione e della stessa riflessione umana, che esista un’unica, statica, solida verità.
La distinzione, di origine addirittura presocratica, fra Verità ed Opinione, è venuta a mancare del tutto; come sottolinea De Monticelli, la frequente ripetizione di frasi come “la mia/tua/sua verità” testimonia la crescente uniformità di significato che questi due termini vengono ad assumere.
Quello che, infatti, avviene nel quotidiano è che la verità è continuamente frammentata, contraddetta, violentata e ridotta ad un flusso continuo di frasi, smentite, notizie contrastanti, omesse, edulcorate, esacerbate, a seconda della necessità di chi, di questo flusso, tiene le redini.
Chi non ha solide fondamenta su cui poggiare i piedi finisce per affondare: in questo fluire ininterrotto e sempre più frenetico di input contraddittori, il cittadino, ormai stabilmente relegato al rango di telespettatore ed all’esercizio passivo di una democrazia da divano, si trova inondato, sommerso ed, in definitiva, immobilizzato.
Come costruirsi un’opinione, se tutte le informazioni che si ricevono al mattino rischiano di essere (e spesso sono) smentite la sera stessa, o se è abolito ogni ordine gerarchico fra ciò che davvero vale la pena di considerare e l’enorme mole di spazzatura insignificante che ci viene propinata? Come si può indignarsi per qualcosa che è subito dopo descritto in modo completamente diverso, rigirato, rivoltato ed infine dichiarato falso o frainteso?
In questo vero e proprio mosaico, anche i più basilari principi del pensiero logico sono distrutti dal coesistere di “verità” discordanti, e la conseguenza è lo spaesamento, la paralisi, mentre il caleidoscopio di notizie ed informazioni che vorticano intorno all’inerme cittadino medio si appiattiscono in un opaco, denso alone grigiastro, fatto di tanta confusione, rassegnazione ed un profondo senso di impotenza, ed espresso dal caratteristico motto: “tanto, sono tutti ladri.”.
Questo “tanto”, tanto rassegnato quanto sintomatico di un certo menefreghismo furbetto radicato profondamente nella cultura del Paese, quel menefreghismo di chi “ha capito il gioco” e dunque se ne tira fuori, pensando piuttosto al suo orticello, denota la percezione diffusa della politica come un universo estraneo, intangibile, per cambiare il quale non è possibile fare niente, e distaccarsi dal quale (se non contrapporvisi apertamente) risulta un’inevitabile misura di autotutela.
La parola “tutti”, invece, esprime il sentore, da parte del cittadino, di una diffusa, indistinta e inarrestabile decadenza collettiva, invincibile e minacciosa, poiché il torrenziale fluire di un’informazione proteiforme rende impossibile mettere a fuoco i singoli soggetti, che siano eventi, personaggi o schieramenti politici.
In questo contesto, non esiste, dunque, nessuna verità, se non quella dello slogan più incisivo e ripetuto con più insistenza; la politica è così diventata un mestiere da piazzisti, da urlatori da stadio, e non più l’attività che Platone esaltava come seconda solo alla filosofia.
Ma la verità esiste. Al di là dei resoconti ritoccati, dei detti e dei contraddetti esiste la realtà, con i suoi dati, univoci e certi; ad esempio, se ciascuno, premesso cosa si intenda per “disoccupato”,  o lo è o non lo è, necessariamente esiste un reale tasso di disoccupazione; se qualcuno ha pronunciato una frase, nel momento in cui questa ha finito di varcare la soglia delle sue labbra diventa storia, diventa dato di fatto.
Non dobbiamo dimenticare questo assunto apparentemente ovvio, ma di fatto eroso da un costante lavorio ai fianchi: dietro le notizie, dietro gli slogan e la propaganda, ci sono i fatti, incontrovertibili perché reali, e su questi si può e si deve fondare la riflessione politica e sociale.
Come fare, dunque, a squarciare il muro di fumo e ad attingere ai fatti stessi?
Sicuramente, leggere e confrontare diversi quotidiani può essere un primo passo.
Un’ ulteriore strategia è quella di ricorrere alle testimonianze dirette: quale miglior modo per informarsi e formarsi un’opinione fondata, ad esempio, sulla situazione a L’Aquila, se non entrare in contatto con chi è direttamente coinvolto?
Nel fare ciò, un ruolo decisivo può essere giocato da Internet, mezzo ideale per un’informazione “diretta” e di prima mano.
Al tempo stesso, è necessario mantenere una memoria storica, anche tangibile: conservare articoli ritenuti significativi, prendere nota degli eventi principali, sforzarsi di ricordare fatti, nomi, date, al fine di sottrarsi all’orwelliana riscrittura della verità di bocca in bocca e di telegiornale in telegiornale, ed, ancora di più, per mettere al riparo alcuni punti certi dagli abissi senza ritorno del dimenticatoio, in cui sarebbero presto sospinti da nuove ondate di notizie, sempre frammentarie o superflue fino al grottesco (si pensi ai vari servizi sulle meraviglie del tartufo, sulla tenera storia d’amore fra un pastore maremmano ed un macaco e sul siliconato davanzale della valletta di turno che ci sono quotidianamente propinati).
Formarsi delle idee fondate, e potere, di conseguenza, tutelarsi, è dunque ancora possibile, ma richiede impegno e perseveranza; la pena per chi si lascia andare alla troppo facile pigrizia ed all’indolenza è l’effettiva defraudazione del proprio diritto a governarsi, camuffato da sorridente e paterna pacca sulla spalla.